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Fin de partie. Massimo Castri (21 gennaio 2013, settant’anni)

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Claudio Longhi


Abstract 

Brescia, 20 maggio 1976, Teatro Santa Chiara. Al “levarsi della tela”, dall’oscurità del palcoscenico emerge lentamente il profilo di una stanza disadorna: un armadio sulla destra, una poltrona al centro, sul fondo una porta finestra al di là della quale si intuiscono scale che salgono… Poi la luce si alza e quel vano indefinito si rivela un bunker spoglio di un algido biancore, rotto solo dalla mole scura del guardaroba a specchio che vi troneggia: è la “stanza della tortura” di Ersilia Drei, la protagonista del pirandelliano Vestire gli ignudi, progettata dal giovane regista, Massimo Castri, in collaborazione con lo scenografo Maurizio Balò. 


Della pittoresca paccottiglia di «buone cose di pessimo gusto» con cui Pirandello aveva scelto di arredare lo «scrittojo del romanziere Ludovico Nota» teatro del suo dramma – le «vecchie tende ingiallite», il «divano di antica foggia ricoperto di stoffa chiara a fiorami, con merletti appuntati sulla spalliera e ai bracciuoli, forse per nascondere il sudicio», il «tavolinetto con ninnoli», il «vecchio tappeto scolorito» in un trionfo di «libri» e «grossi dizionari» che non possono certo mancare nello studio di un intellettuale borghese piccolo-piccolocomme il faut… –, insomma di tutto il consueto armamentario da Vittoriale crepuscolare così caro al drammaturgo di Girgenti, nella visione registica di Castri è rimasto ben poco, o meglio il semplice scheletro.


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