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Traduzione a cura di: Benedetto Marzullo
Le Rane risalgono al gennaio del 405: riportarono uno strepitoso successo, né solo sugli altri concorrenti, in verità mediocri. Fu eccezionalmente decretata una nuova rappresentazione della commedia, seduta stante, si deve immaginare, Era piaciuta per la bontà della sua Parabasi: i consigli che vi forniva, in breve tempo sarebbero divenuti inattuali. Nella sommaria didascalia si dovrà piuttosto leggere Caiabasi. La esilarante Discesa all’Ade di Dioniso, messa in scena dalle Rane, è senza precedenti: al pubblico ateniese non possiamo che invidiare questa immediata, quanto eccezionale replica. Ancora oggi le Rane ci conquistano, non certo per il senno politico, di cui più non si avverte che l’urgenza: ma per la briosa invenzione, la passione che le muove, l’acuta, anche se beffarda problematica.
Sono tuttavia una difficile commedia. Oltre la forma iridescente, complessi motivi vi si agitano e confondono, numerose intenzioni si propongono ed eludono. Lo stesso titolo, il concertante gracidare dell’insolito coro, ancora oggi, malgrado l’aguzza fascinazione, rimangono inspiegati: un impertinente, malioso enigma. Un’opera affollata di impegni, che tuttavia procede spensierata, inconsapevolmente diver tita. Il lettore moderno le si abbandona fiducioso, dimentico dei ricorrenti propositi: ma di continuo si arresta perplesso, gli manca il senso di una esperienza smagliante e assieme pungentemente allusiva. Gli odierni critici la stringono con tenacia, discutono, dissentono. Molto chiariscono: la gialla preda si divincola e fugge, lieve e scherzosa. Sulla scena, probabilmente, il suo guizzo risulterà irreprensibile.
Ogni altra commedia di Aristofane si impone per la fulminea rapidità di concezione, l’immediatezza con cui si realizza. Le Rane sembrano vagare indecise, anche se il ritmo non cede mai, non le abbandona un istante il sorriso. Il giovanile impeto di Aristofane indugia in questa, che possiamo dire la prima opera della sua maturità. L’angoscia di “tempi penultimi” (fra poco Atene sarà schiacciata, e per sempre), verosimilmente irretisce e disgrega. Le Rane possono apparire sostanzialmente stanche ed attonite: oltre la specie irridente, vi si avverte una cupa, disperata minaccia. Le due commedie successive saranno scettiche, precocemente senili, ironiche. Illividisce la storia di Atene: la passione civile e letteraria, che ancora crepitava nelle Rane, vi risulterà spenta.
Ma più complessa è l’incertezza delle Rane. Un dispe-
rato successo, pochi mesi prima, aveva ottenuto la flotta
ateniese alle Arginuse: dopo venticinque anni di guerra,
di macabri sussulti, sembrava rinverdire la fiducia. Una
tempesta si abbatte sulle navi vittoriose, impedisce di racco-
gliere dalle acque i caduti: la vecchia inquietudine fa
esplodere la superstizione, gli strateghi pagheranno con la
vita. Il disastro incombe, annienta la spettrale vittoria:
smarriti, si cerca un appiglio di salvezza. Ambiguamente
sorride Alcibiade esiliato, affascina la sua mostruosa ambi-
zione. Solo il passato ofïre un solido rifugio, con i suoi
trionfi, l’onesta volontà. Si vagheggia, come accade, un
impossibile ritorno. Le Rane trepidamente operano questa
finzione: il gioioso inganno cui si abbandonano, ha un
aspro sapore umano. La rovina che si abbatte su Atene,
ne conclude spietata la storia: ma assieme libera una età
nuova, che preme da tempo. Un’età senza glorie, in cui f
l’uomo non ha misura che se stesso. La nostra età. Aristo-
fane ne avverte gli aciduli fermenti, -non riesce a intenderli:
tenta di arginarli, con il riso delle Rane. Un patetico
eroismo, che disorienta.
Era da poco scomparso Euripide, lo sconcertante inter- prete di questa nuova dimensione. Aristofane lo aveva tenacemente combattuto: la novità è del resto facile, ne- cessario bersaglio dell’arte comica. Ma il pervicace scherno aveva più profondo motivo: Aristofane subisce suo mal- grado la suggestione euripidea. Glielo aveva rinfacciato vent’anni prima il vecchio Cratino: sottigliezza verbale e concettuale costituiscono il suo “euripidaristofaneggiare.” La morte di Euripide lo colpisce: un senso di vuoto egli avverte sulla scena, nella stessa città. Prova lo smarrimento di ogni altro Ateniese. Le Rane, oltre l’apparenza farsesca, sono un atto di omaggio allo scomparso. Né solo involon tario: il rimpianto è sincero, struggente. La commedia esorcizza, sconfigge la nuova, più distruttiva angoscia. La deformazione comica imposta ad Euripide, non è più grave di quella che subisce Eschilo. Euripide non perde il singo lare confronto con l’eroico poeta: nessun argomento, serio o faceto, lo dichiara inferiore. Dispiega anzi una lucida, inte merata sicurezza, una inquietante persuasione. Trionfa Eschilo, perché a lui, ad un tempo perduto nostalgicamente inclina l’animo di Aristofane, la smarrita coscienza dei suoi giorni. Illusorio trionfo: una consapevole rêverie, probabil mente. Le Rane inventano la letteratura come consolazione, fragile ma gratificante rivalsa.
Tutta la commedia insegue questo perduto amore. La vicenda si svolge su un piano psicologico, piuttosto che surreale. Si articola estrosamente, fra continue incertezze, lepidezze illusorie. Il rimpianto di Dioniso, istintivo (un viscerale morso), soltanto alla fine si precisa : non di Euri pide egli ha cocente desiderio, ma di Eschilo. Di un altro se stesso, in verità. Si scopre che a lenire la propria, atterrita solitudine non sarà la riconquista di nuove sugge stioni, ma la ricerca di una antica fiamma. In questa appa rente contraddizione è l’unità, ma anche la verità della commedia. Nella burlesca vicenda di Dioniso è adombrato un mito perenne: allora come oggi oscilliamo fra impegni esistenziali e lusinghe ideali. Perché cessi l’inquietudine, si dovrà cedere a queste ultime: illudersi, regredire in proie zioni, non più che primordiali.
Le contingenze di una simile esperienza appaiono irrilevanti, Eschilo ed Euripide non sono figure, ma emblemi: le parzialità, le deformazioni cui li sottopone la commedia, non mutano e neppure intaccano i loro simboli. Tutta la realtà, in questa assurda avventura, viene schematizzata. L’ostinata ricerca del morto Euripide si trasforma, imprevedibilmente, in una scelta perentoria, immotivata : il viaggio infernale intrapreso da Dioniso assomiglia ad un tuffo nel subcosciente. Conduce a riscoprirvi, vera causa della nostalgia, l’urgenza di una domestica passione : di elementari affetti, di spontanee certezze. La dialettica fra questi due poli esclude la considerazione di Sofocle, scomparso anch’egli, qualche mese dopo Euripide. Aristofane non è sorpreso dal nuovo lutto: non tenta di modificare, come si afferma, il gioco della propria concezione, di fare posto al terzo tragico. L’imbarazzo era possibile sul piano logico, formale, non su quello sentimentale. Nella rarefatta atmosfera della sua commedia, una triplice alternativa sarebbe una stortura: trivialmente realistica. Il divino Sofocle, confrontato con gli altri due tragici, rischia di apparire privo di storicità, di esclusiva essenzialità. Non potrebbe assumere in sé un momento, distintivo, polemico, del- l’esistere. Aristofane ha intuito questa marginalità di Sofocle, lo ha reverentemente messo in disparte. Non lo hanno intuito i suoi moderni critici: che ne protestano e fino indicano, verso per verso, il presunto imbarazzo.
Le Rane significano una incerta nostalgia del poeta: dal piano mentale si sposterà su quello sentimentale, si definisce, irrazionalmente, in Eschilo. L’angoscia del presente sospinge alla ricerca del passato, di inestirpabili radici. Eschilo appare sempre più un ideale rifugio: aspro e fin incomprensibile, ma semplice, solido, lontano dalla disgregazione attuale, dalle inquiete vertigini che si vanno scoprendo, e assaporando, nella esistenza. Significato diverso non vedremmo nelle Rane: non costituiscono, come generalmente si vuole, una battaglia politica, tanto meno una disputa letteraria. Politicamente ingaggiata è tutta l’opera di Aristofane, tale si può dire ogni attività di Atene. L’intollerante politidtà di Aristofane è anzi moderata nelle Rane: l’insistenza dvica della loro conclusione, rappresenta un forzoso ritorno alla realtà, il motivo e assieme la fine della evasione. L’apostòlica moderazione di questo Aristofane, non combatte né convince: semplicemente si arrende ai propri, sorpassati miti.
Una disputa letteraria, o almeno culturale, neppure vedremmo nelle Rane, per quanto più che consuete nelle commedie del tempo. I criteri, le argomentazioni, i giudizi espressi nelle Rane sono evidentemente farseschi: sfiorano spesso la verità, con arguzia ingegnosa, non si preoccupano della verità. Con perfetta conseguenza neppure concludono. Letteratura è del resto termine troppo moderno e consa pevole, per inseguirlo in Aristofane. Al suo posto c’è una concezione civile, morale, fin sociale, espressa con opere di pensiero: due concezioni della vita, prima ancora che dell’arte, si confrontano se mai in queste Rane. Due ten sioni esistenziali, dicevamo, opposte fra loro ma egual mente necessarie. Ridurre Eschilo ed Euripide nei termini di una poetica rigorosa, e per giunta attuale, è opera zione improbabile. Il corposo realismo di un Eschilo, ad esempio, si dissolverebbe presto in un simbolismo ermetico ed astratto: sfocerebbe in un surreale scenario. Il dimesso naturalismo euripideo, però inquadrato in un senso della forma sempre più spoglio e rigoroso, si smarrirebbe in affabulazioni dialettiche, imbarazzanti. Realtà ed astrazione sono ambedue presenti nei due poeti, con protocolli tut tavia diversi: un paio di generazioni in verità li separano, l’esplodere di una civiltà finalmente multidimensionale. De stinata a•corrodere e dissolvere se stessa, ad attuare nel presente un lucido, ma lancinante futuro. Con Euripide comincia la nostra ed implacata età.
Il senso delle Rane esprime dunque una segreta nostalgia, inquieta del presente, illusa del passato: una precipitosa, esaltante fuga dalla storia. Nell’imminenza della catastrofe, si abbandona la città terrena, si cerca scampo nella me moria. Dieci anni prima, con gli Uccelli, ancora si sfuggiva all’angoscia del tempo, riparando nella fantasia. La memoria ha dimensione tuttavia terrena, la fantasia può concedersi un distacco integrale. Gli Uccelli, infatti, risultano una commedia perfettamente organica, confidano in un librato volo: il brio cancella l’ultima ombra della malinconia, si scioglie in un finale, fantasmagorico tripudio. Le Rane incertamente procedono nel ricordo, premute dal dolore: lo accarezzano, con dichiarata pudicizia. Di qui il loro andamento capriccioso, ma anche la comicità più varia e balenante, aggressivamente farsesca. L’esperienza delle Rane è più viva, impigliata nel presente: tesa alla ricerca di un altro tempo, che sa e tuttavia nega di aver perduto. Per questo risulta imprevedibile e fino scomposta: sconcerta. Oltre alla specie esilarante, le Rane rappresentano uno strappo angoscioso dalla realtà: un patetico, irrazionale inganno. Riconosciamo in essa una perenne vicenda, l’assediata insofferenza dell’uomo.
B.M.
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