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Giuseppe Liotta
È la più misteriosa, complessa, impenetrabile opera che il teatro classico greco ci ha tramandato: scritta alla fine del V secolo a.C. da Euripide fra il 406 e il 405 pochi mesi prima della sua morte, è l’ultimo lavoro del drammaturgo che aveva trasformato la “tragedia” in “commedia” dandole un nuovo assetto drammaturgico e rendendola più legata al quotidiano e più umana. Ma in questo periodo di grandi cambiamenti dal punto di vista storico (l’età periclea definitivamente sconfitta nella guerra del Peloponneso del 404 a.C.), sociale e culturale (l’affermarsi della commedia satirica, comica di Aristofane) le Baccanti euripidee diventano la metafora teatrale più drammatica e umoristica, quasi farsesca: la tragica, palese immagine della fine di un’epoca e dell’avvento di una nuova era che non può non partire dall’assurdo delle situazioni, dove si fa fatica a conciliare il “vecchio” con il “nuovo” che comincia ad arrivare dal punto di vista della religione, del costume, della natura stessa del personaggio e della persona, dove ogni cosa vive non più da sola, bensì indissolubilmente legata al suo fatale, imprescindibile doppio: il mondo, le persone e le cose non sono quello che sono, come appaiono, ma sembrano nascondere un “altro da sé”, una dualità che è intrinseca al mito stesso del dio nato due volte, dal ventre di Semele e dalla coscia di Zeus, con la quale si dovrà, da questo momento, fare i conti se si vuole superare l’insensatezza della vita, o almeno comprenderla.
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