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Pluto (Teatro Quirino, Roma, 1991, Pisa, Giardini, 1992)

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Traduzione a cura di: Benedetto Marzullo


Questa piccola edizione del Pluto nasce come sup­porto di una fortunata messinscena*. La prima re­dazione risale a venticinque anni orsono, conclude­va la traduzione di tutto Aristofane, cui attendevo dai primi anni Cinquanta. In ulteriori ristampe ha subito ritocchi e rifacimenti, il collaudo di lusin­ghieri Premi letterari (Viareggio 1968), il saccheg­gio, non meno cattivante, di improvvisati tradut­tori.
Gli interventi, questa volta, sono tutt’altro che occasionali: è la funzionale messinscena a smasche­rare oscurità e carenze della stesura primaria, a de­nunciarne le alterità o falsità, nei confronti del te­sto greco. Non esistono buone, non dico ottime, tra­duzioni. Risulteranno, nel migliore o più onesto dei casi, meno cattive, non del tutto estranee all’ o­riginale. Tradurre implica contraddizioni insa­nabili, non solo i codici significanti divergono di­spettosamente, ma in modo disperante quelli con­tenutistici, culturali. La necessità del comunicare, supponendo una comunità e continuità dello spi­rito, malgrado la separatezza di spazi e tempi, in­giunge di perseverare, pur consapevoli della approssimazione, dell’arbitrio. Tuttavia ripagan­do, sia sul piano letterario, sia giovandosi della vicaria esperienza del tradurre, per un arricchi­mento peculiarmente umanistico. Senza confron­to con civiltà altre, con gli altrui rovelli concettua­li e formali, non si dà cultura: dalla traduzione dell’Odissea di Omero nasce (dopo cinque secoli) la letteratura latina, alla base della letteratura, della stessa lingua tedesca è la Bibbia, volgariz­zata da Lutero.

Se l’alterità storica, geografica, induce al pessi­mismo, altro abisso si oppone all’opera di chi tra­duce una pièce teatrale. La corrispondenza dei te­sti, nel caso della letteratura, si può immaginare biunivoca, ha dimensioni quanto meno parallele, trasponibili (ma non reversibili). Quello teatrale è, notoriamente, un protocollo parziale, il copione as­somiglia ad una partitura, che, a dispetto di stru­menti, temperamenti, consuetudini degli esecutori, obbedisce ad un disegno persistente, inalterabile. In nessun caso, tuttavia, la messinscena si esaurisce nel compitare il testo. Il cui codice è multiplo, ine­stricabile: oltre alla sequenza verbale, ogni altro medium comunicativo (gestuale, sonoro, canoro, musico, coreografico, decorativo) viene implicato. Un universo squisitamente, se non prevalentemen­te, «corporeo», obbligato a ciascuno dei linguaggi sensoriali, sapientemente intrecciandoli con pause e silenzi, privilegiando (già con la diversificazione del «tempo» interno) la comunicazione sospesa, funzionalizzando significativi intervalli. A disdo­
ro di quello letterario, dovremmo definirlo «musi­co»: a differenza della parola, non è infatti trascri­vibile, è vissuta spazialità, irripetibile. Costituisce un evento, la magia stessa del teatro, che si produce in spettacolo.
Senza il testo, senza drammatica vicenda, lo spettacolo rischia di essere gratuito,fine a se stesso, esibizione circense: nei casi più fortunati, dilettosa, vaniloqua haute couture. La parola del teatro, del resto, non è di convenzionale natura. Oltre alla valenza lessicale, ha una capacità proiettiva e pro­duttiva dai folgoranti esiti. Una sorta di cellula germinativa, in cui è iscritto l’intero ed apparente­mente eterogeneo spettacolo, la sua oggettivazione visuale. Pronunciata sulla scena, questa parola di-spiega ineffabile pregnanza, mette in moto una macchina esecutiva insospettata, di straordinaria ricchezza e potenza.
Gli uomini di teatro, molto meno i semplici afi­cionados (ma per nulla.filologi mestieranti), sono in grado di leggere quello spartito, in cui consiste il copione teatrale1 di intuirne le articolazioni molte­plici, rigorosamente però sinfoniche. Di proiettar­sene, davanti agli «occhi della mente», la rappre­sentazione latente (Aristotele): attuare la virtù, sintomaticamente prospettica, di siffatta «parola», delle strutture significative, ma soprattutto sintatti­che, architettoniche, in cui segretamente consiste. La «parola scenica» ( diversamente da quella di verdiana memoria, furbescamente interessata al plateale effetto) è, in sostanza, intraducibile, non costituisce entità, ma progetto multiplo. La parola comunicativa non ricorre allo spazio, si identifica col pensiero, non conosce che sviluppo temporale: la «parola scenica» viene integrata dalla dimensio­ne spaziale, corporea, luculentemente sensoriale. È intraducibile, perché sintomatica, performativa: si trasforma, con la mediazione dell’attore, in gesto, o canto o danza (ma anche ballo e balletto,fin impe­tuoso musical). Ha prosodia e ritmo esclusivi, sommariamente ripetibili, solo e direttamente espe­ribili, con fisica presenza e partecipazione.
Non meno insidioso è altro, ali’ apparenza di­sambiguo linguaggio, quello in cui consiste la comi­cità: comunica attraverso il riso. Per quanto ele­mentari, spesso primordiali (o, all’apparenza, uni­versali) i suoi meccanismi, il senso che esso produce ha più aguzza ed ardua storicità: intraducibile, in quanto irripetibile corto-circuito. Il repertorio si­
tuazionale1 caratteriale, ideologico ha evidenza in genere immediata, ma ai tricks verbali (non di rado meccanici) linguistici, stilistici, ripugna l ‘imi­tazt?ne, la pura e seniplicistica iterazione, la tra­
duzione. Il mez o è, rigorosamente, il messaggio: la mutata ?verbalizzazione ne dissipa la metafisica
natu’.a, ‘!1 lgrado il sussidio di volenterose compo­nenti ?mimiche, gestuali, ambientali. La sorniona
allure di questa (di ogni) commedia, se consegnata ad na nuova tes ttura vocale, a differenti prosodie e ?ritmi, _ .rtsch _ a d?i smarrirsi, di afflosciarsi sgrade­ volmente. ?Diffiale, _ se non impossibile il rimedio
la ricerca (per definizione balbettante) di non bana’. li surrogati.
Il piccolo Pluto, con cui mi sono arrovellato nuov mente, si sforza di progredire su questi im­pervu, _? quanto dilettevoli sentieri. Si offre soprat­
tutto frutzton?Ilo e, mespettato?orta e, sostanquale guida iale per (scarspmente una migliorefor­ male) d, . una ? _1ncond1tafamnazione. ? E tenue trac­
cia di una perigliosa, corale «cantata», di un dram­ma giocoso, essenzialmente musicale. Si offre ver­bale (se non verboso) libretto, insomma, di una spettacolare esperienza. 

B.M.


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