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Angela M. Andrisano
Ad un anno circa dalla morte di Benedetto Marzullo, si è tenuta a Ferrara (27 Ottobre 2017, Dipartimento di Studi Umanistici) una Giornata internazionale di studi (Benedetto Marzullo. Un filologo classico scomodo e “stravagante”)1, cui hanno partecipato con vivace entusiasmo quasi tutti i numerosi allievi2 ed alcuni collaboratori e amici3.
Gli allievi, che hanno efficacemente mostrato di essere parte di una scuola affiatata, quanto articolata in percorsi di ricerca diversi e congeniali alle singole personalità, hanno ricordato gli studi sul teatro e la traduzione di Aristofane quali capisaldi della produzione scientifica del Maestro. In quest’occasione Giusto Picone ed io, in qualità di responsabili della rivista «Dionysus ex Machina», abbiamo ripreso in considerazione la possibilità, già discussa in una riunione di Redazione, di pubblicare un Dossier Marzullo, che consentisse di poter di nuovo agevolmente consultare alcuni lavori dello studioso. Le ragioni di questa scelta risiedono innanzitutto nel fatto che B.M., insieme a pochissimi altri ricercatori della sua generazione (Carlo Ferdinando Russo, Giusto Monaco) o di poco più giovani (UmbertoAlbini, Dario Del Corno), guardando in particolare alla prospettiva di alcuni filologi inglesi, Fraenkel in primis, nonché agli studiosi della tradizione shakespeariana, affrontava i testi teatrali come partiture da eseguire, con occhio attento alla performance, inaugurando una sorta di filologia del testo teatrale che affrontava una serie di questioni specifiche e quasi sempre non ancora considerate (parola scenica, scenografia verbale, distribuzione delle battute, costruzione dello spazio scenico, nome parlante etc.).
Alla fine degli anni ’60 del secolo passato i testi teatrali erano quasi sempre oggetto di studio in quanto testi letterari, che, giunti a noi attraverso un’accidentata tradizione, necessitavano dell’occhio attento di un filologo formale e/o di uno studioso di storia letteraria. La lettura dei testi per la scena poneva B.M. di fronte a interrogativi nuovi, sollecitati da un’attenzione interdisciplinare per tutte le arti – fu creatore a Bologna del primoDAMS –, da un contesto culturale fortemente innovativo (spesso censurato dagli antichisti, ancorati ad un conservatorismo di maniera), nonché dal teatro e dal cinema di avanguardia che egli frequentava abitualmente, curioso di ogni nuova sperimentazione. Studioso di testi teatrali, era di necessità anche un theatregoer che affermava vibratamente come ogni riproposizione di un testo classico sulla scena fosse foriera di una più approfondita comprensione, di nuove aperture e nuove domande irrisolte.
Organizzò nell’Aula Magna dell’Università di Bologna – era non a caso il 1968 – la rappresentazione del Prometheus del Living Theatre, affascinato dalle provocatorie novità della coppia Julian Beck e Judith Malina, gli allievi di Piscator, che tornavano alle origini del teatro, ma ripensandolo in modo anticonvenzionale a partire dall’utilizzazione di spazi una volta improponibili e di linguaggi contemporanei potenti, dando vita ad un’esperienza che fu unica, osteggiata, irripetibile.
Da antichista B.M. era attentissimo alla contemporaneità e alle sue contraddizioni, assunte e riproposte sulla scena dell’allora Nuovo Teatro. La specificità del suo lavoro di ricerca stava nel partire – in modo artigianale, oserei dire – da un testo insoddisfacente sulversante critico-testuale o di difficile interpretazione e di tentare un passo avanti, servendosi, oltre che di un metodo rigoroso, della strumentazione del filologo, ma anche di quella del teatrologo, senza avvertire la necessità di teorizzare, se non limitatamente, ma piuttosto pago del singolo risultato, della formulazione di una nuova ipotesi. Appartengono soprattutto agli anni 2000 gli studi generalisti, oggi molto citati (si vedano per lo meno quelli benemeriti di E. Csapo, M. Revermann etc.), i cui assunti erano già sottesi, quando non dichiarati, nei lavori di B.M. (e di parte della sua scuola) degli anni ’80-’90 del secolo scorso.
Alla predilezione per il teatro comico si deve la traduzione dell’intero teatro di Aristofane, che gli valse il premio Viareggio nel 19684. Alla tragedia, che gli era meno congeniale, si volse in un secondo tempo, a partire dagli anni ’80, quando la vita gli riservò vicende dolorosissime, che inasprirono vieppiù il suo temperamento intelligentemente critico, intollerante verso i conformismi, eticamente intransigente. Il suo sguardo divenne più attento ai contesti storici e culturali relativi agli anni di fioritura della tragedia euripidea: i risultati rilevanti, sia sul versante dell’analisi drammaturgica dei testi, sia sulla ricostruzione della competenza del pubblico ateniese più addestrato, lo portarono ad individuare nel Maestro del Prometeo un autore al passo con i tempi, gli anni ’20 delV sec. a.C. Alla Medeadi Euripide riservò analoga puntigliosa indagine.
Per questi motivi, troppo brevemente accennati, ripubblichiamo ora, a mostrare la capacità di scavo drammaturgico e il tentativo di ricostruzione storica, tre traduzioni per la scena. Quella del Prometeo venne approntata per l’occasione di uno spettacolo promosso dall’I.N.D.A. (Siracusa, 1994) per la regia di Antonio Calenda5 e affianca in certa misura il volume dedicato alla questione dell’autenticità della tragedia, mentre le due traduzioni aristofanee vennero riadattate (a partire da quella del 1968): quella delle Rane dette vita ad uno straordinario spettacolo dell’I.N.D.A. (Siracusa, 1976), di cui fu regista Roberto Guicciardini, che da quel momento divenne amico e privilegiato interlocutore di B.M. Chi ebbe la fortuna di vedere questa messinscena ricorda l’indovinata e creativa riproposizione del testo antico, comico per giunta e di più difficoltoso impegno, e soprattutto la stupefacente interpretazione di Dino Buazzelli nel ruolo di Dioniso.
Moderna e agilissima era la traduzione del Pluto (Pisa, 1992) che fu preparata e sperimentata durante le prove, come di rito lo furono anche le precedenti, per un felice, innovativo evento, prodotto dal Centro sperimentale del Teatro, diretto da Stelio Fiorenza, per la regia di Shahroo Kheradmand. Lo spettacolo, che approdò al Teatro Quirino (Roma, 1991) dopo un lungo laboratorio ed un debutto all’aperto nell’estate del 1990 ad Istanbul6, coniugava le enigmatiche visioni surrealiste di Magritte a metafisiche solitudini beckettiane, evidenziate dallo spazio vuoto, solcato da un muro: scelta felicissima e riuscita per uno spettacolo che prendeva spunto dal testo comico antico, ma per farsi contemporaneo. Alle traduzioni si affiancano gli articoli su Medea: offrono un analogo spaccato del metodo di lavoro di B. Marzullo, che scandaglia in questo caso una tragedia sempre attuale, e non solo per via della portentosa protagonista. In conclusione: anche quando si resta perplessi o non completamente persuasi di fronte alle nuove soluzioni e conclusioni proposte dallo “stravagante” studioso, risultano sempre apprezzabili, pertinenti, incisive le domande con cui egli interroga i testi. I quali diventano al suo sguardo interlocutori di istanze sempre urgenti, perché contemporanee.
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