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Disumano, troppo umano. La maschera del tiranno e l’antropologia dei filosofi (da Sofocle a Seneca)

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Fabio Tutrone


Abstract 

Tyranny is often regarded as «a perennial problem» (Boesche 1996) on the basis of its ubiquitous presence in literature. Even more enduring is the problem of how to define human nature, its place in the environment, and its relationship to the divine – a core issue of philosophical anthropology (Pansera 2001, Honenberger 2015). In the present paper, I shall approach the literary construction of the tyrant figure in Greek and Roman tragedy from the holistic perspective of philosophical anthropology. I will focus on three well-known dramas (Sophocles’ Oedipus the King and Antigone and Seneca’s Thyestes) which put great emphasis on the moral and cognitive status of tyrants as “exceptional” human types. I will try to show how Sophocles’ Oedipus and Creon and Seneca’s Atreus reflect in different ways the ancient philosophical discussion about the humanizing power of reason and language – a discussion that echoes but at the same time transforms the patterns of folkloric thought. Indeed, not only did a philosophical anthropology sensu proprio develop in the ancient world and refashion traditional mentalities, but Greek and Roman dramatists were also to able to provide a critical response to the models of philosophy. In the age of Presocratic rationalism and Sophistic relativism, Sophocles portrayed his tyrants as masters of speech (λόγος) and intelligence (γνώμη) who dared to challenge divine law but ultimately became inhuman because of their excessive confidence in human cognition. Similarly, though in the largely different context of imperial Rome, Seneca used the tyrant figure to describe the Stoic process of «inversion of reason» (διαστροφὴ τοῦ λόγου) and blamed the degradation of human life from the pursuit of wisdom to the self-conscious promotion of vice. 


L’idea di tirannia è spesso percepita come un «problema perenne» (Boesche 1996) per la sua trasversale presenza nella letteratura. Ancora maggiore è la persistenza del problema dell’identità umana e del rapporto fra uomo, cosmo naturale e divinità. Si tratta del problema fondamentale dell’antropologia filosofica (Pansera 2001, Honenberger 2015). Questo contributo analizza i meccanismi di costruzione della figura del tiranno nella tragedia greca e romana a partire dalla prospettiva olistica dell’antropologia filosofica. L’analisi qui condotta verte su tre testi assai noti (l’Edipo re e l’Antigone di Sofocle e il Tieste di Seneca), dove grande risalto è assegnato al profilo morale e cognitivo dei tiranni in quanto tipi umani “eccezionali”. Si cercherà di mostrare come i personaggi di Edipo e Creonte in Sofocle e quello di Atreo in Seneca riflettano in modi diversi il dibattito sorto fra i filosofi antichi a proposito del potere umanizzante della ragione e del linguaggio – un dibattito, questo, che riprende, ma al contempo trasforma le categorie del pensiero folklorico. Non solo la cultura antica elaborò un’antropologia filosofica, in senso proprio, in grado di ridefinire le mentalità tradizionali, ma i drammaturghi greci e romani furono anche in grado di rispondere con coscienza critica ai modelli del sapere filosofico. Nell’età del razionalismo presocratico e del relativismo sofistico, Sofocle rappresentò i suoi tiranni come maestri del discorso (λόγος) e della saggezza (γνώμη) capaci di sfidare le norme religiose, ma in ultimo destinati a diventare disumani a causa del loro eccesso di fiducia nella conoscenza umana. In modo analogo, benché nel diverso contesto della Roma imperiale, Seneca utilizzò la figura del tiranno per dare corpo al modulo stoico dell’«inversione della ragione» (διαστροφὴ τοῦ λόγου), stigmatizzando la degenerazione dell’essere umano dalla ricerca della sapienza alla promozione consapevole del vizio. 


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